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il Corriere Musicale

Diana Damrau, o della gioia di fare musica. Così potrebbe intitolarsi una biografia del soprano bavarese dai capelli colore del sole, che dalla sua terra natìa ha ereditato quell’esuberanza al luppolo che prima di lei è stata cifra distintiva di altri cantanti artisticamente cresciuti nelle regioni meridionali di lingua tedesca. Quell’effervescenza bionda, spumeggiante e fresca come un buon boccale di Augustiner, il cui tratto saliente risiede in uno slancio genuino, sincero, irresistibile. La Damrau è forse una di quei pochi artisti lirici davvero maiuscoli dei nostri giorni, il cui numero è possibile contare sulle dita di una sola mano. Quelli, per intenderci, per i quali vale la pena investire qualche soldino per seguirne da vicino la carriera.

Inoltre, la diva teutonica è forse la sola nel panorama attuale assieme alla nostra Ceciliona Bartoli (verrebbe in mente anche la Dessay, non avesse dato il definitivo – pare – addio alla ribalta operistica) a sembrare di godersela un mondo sulle assi del palcoscenico: snocciola temibili colorature e si prodiga nell’emissione di fiati dalla miracolosa lunghezza per mezzo di un coinvolgimento talmente totalizzante da divenire contagioso. Da questa specie di gioiosa possessione da parte di Apollo (benché sarebbe meglio parlare, in questi casi, di Dioniso) nasce l’approccio quasi rapsodico che le novelle pizie offrono durante loro concerti, nei quali si ha l’impressione che esse approccino il brano per la prima volta tanto è lo stupore con cui vanno ad esso incontro, tante la vivacità con cui lo carpiscono e la spontanea immediatezza con cui v’improvvisano nuove soluzioni cadenzali.

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